Подрум – IL RIFUGIO

BELGRADO, Marzo 1999, 12 anni e tanta voglia di conoscere il mondo.

Tac. Tac. Tac. La voce del tempo era palpabile per colpa della pendola in corridoio. Le lancette si spostavano implacabili sul quadrante, mi ricordavano che mi restava un secondo in meno da trascorrere in questa vita. Tutti nella casa stavano dormendo. Io non potevo dormire. C’erano troppe cose belle da fare. Ancora stesa sul letto, guardavo fuori dalla finestra. La luce di quella mattinata grigia di marzo mi dava la percezione che la primavera non fosse ancora arrivata. Avevo provato a resistere, ma l’impazienza era troppa. Ancora altri sessanta movimenti, mi dicevo. Quel conteggio era doloroso, dovevo alzarmi. Il respiro pesante che giungeva dalla stanza accanto mi aveva spinta a fermarmi lungo il corridoio per sbirciare: nonna era immersa in un sonno profondo, la bocca socchiusa. Poggiata sullo stipite, sono rimasta a guardarla per un po’. La moquette sotto le piante dei piedi mi provocava una piacevole sensazione.

In cucina il nonno era seduto davanti alla finestra, scrutava la città attraverso lo schermo trasparente. Dovevo saperlo, lui era sempre il primo a svegliarsi. Di soppiatto  mi sono seduta di fronte a lui.

«Vuoi del pane e marmellata?» mi ha guardata come se fossi sempre stata lì.

Ho annuito. Chissà a cosa stava pensando. Era sempre serio. Mi rimproverava di continuo, mi dava fastidio che mi dicesse costantemente cosa fare, dopotutto avevo 12 anni, non ero più una bambina. Aveva promesso che quel giorno saremmo andati al mercato delle pulci. Lui doveva comprare una nuova đezva per il caffè e io scoppiavo dalla voglia di andarci. Per lui non era un’esperienza entusiasmante, era convinto che vi fossero solo cianfrusaglie a buon mercato, ma nel paese in cui vivo io non esiste nulla di simile. Ogni volta in cui andavo a trovare lui e la nonna, volevo farmici portare! Per me era un luogo magico, brulicante di gente. Una città dentro la città gremita di chioschetti e banconi di cartone improvvisati su cui era esposta merce di ogni genere. Le persone che popolavano quel ricettacolo di paccottiglia, esteso lungo una rete capillare di centinaia di metri, erano ciò che più mi attraeva di quel posto. Loro amavano parlare e mi facevano tante domande. Mi offrivano degli assaggi del cibo che vendevano o mi regalavano degli oggetti, come magari un bracciale, una tazza o un cappellino. Mio nonno non voleva che li prendessi, li restituiva dicendo che non ne avevo bisogno e che erano di poco conto. Per me non era così. Erano dei cimeli. Quando tornavo a casa, li riponevo sul ripiano del mobile in camera mia. Nonno non capiva. Collezionare ricordi dalle persone, mi donava la sensazione che queste fossero tutte quante lì con me nella stanza. Mi facevano sentire meno sola.

Sotto i denti scrocchiava il pane caldo coperto della marmellata di albicocche che il nonno faceva in casa. Era la mia preferita. La nonna aveva fatto capolino in cucina, la vesteglia svolazzava attorno alle sue gambe. Il boato di un aereo militare aveva fatto tremare le lastre. Si sono scambiati uno sguardo fugace. Nei giorni precedenti ne erano passati tanti. Ne parlavano anche al telegiornale.

«Forse sarebbe meglio se non andaste oggi» la nonna aveva incurvato le sopracciglia preoccupata.

«Cosa?! No! Io voglio andare!» tutti avrebbero potuto tradirmi, ma non lei.

Mi sono voltata incredula verso nonno, che non aveva ancora detto niente. Aveva semplicemente ripreso a scrutare fuori dalla finestra.

«Anima mia, è pericoloso. Restiamo a casa, cucineremo assieme e poi mi darai una mano a riparare le vecchie collane. Ti piace tanto farlo. Nonna ti prepara quello che vuoi.» i suoi occhi erano pieni di amore.

«Non voglio cucinare! Voglio andare al Buvljak! Me l’avevate promesso!» lei ha provato ad avvicinarsi, ma ero riuscita a scansarmi e correre in camera.

Avevo sbattuto la porta con tutta la forza che avevo in corpo. Con la coda dell’occhio ero riuscita a intravedere la sua espressione intrisa di tristezza. Non mi importava. Anzi! Ero felice che si fosse rattristata, perché non sapeva cosa mi aveva procurato, disilludendomi così. Erano due bugiardi, non volevo più parlare con loro. In lontananza sentivo che mio nonno le diceva: “Lasciala stare, le passerà.”

Avevo chiuso a chiave la porta, non volevo vedere nessuno. Le mie grida avevano svegliato la zia. Si è precipitata in cucina, dove ho sentito solo “indisciplinata”, “deve prenderle”, “non mi lascia riposare nemmeno durante le vacanze di Pasqua”.

Li odiavo tutti. Ci si erano messi pure loro, come se gli altri non bastassero! Nei giorni precedenti gli amici di una vita non facevano che evitarmi, non mi salutavano più. Io gli parlavo e loro non rispondevano. Ci conoscevamo da quando ero piccolissima. Passavamo assieme tutta l’estate. Durante le vacanze di Natale scendevamo con gli slittini dalle collinette innevate in mezzo ai condomini del quartiere. C’era un bel legame tra noi. Avevo chiesto ai nonni perché facessero così, ma non mi hanno mai risposto. Quando avevo incontrato il figlio della famiglia al primo piano, gli avevo detto che se non mi avesse risposto lo avrei riempito di botte. Lui aveva abbassato lo sguardo imbarazzato, un secondo dopo mi guardava  con rancore:

«Non parlo con te. Tu vieni dall’Italia, anche voi volete farci questo. Adesso vai via, il tuo posto non è qui.»

Il mio corpo si era trasformato in un blocco di cemento, l’ho solo visto svoltare fuori dal portone, incapace di dire alcunché. Buffo, all’epoca nemmeno conoscevo Aviano, né sapevo che la base si trovasse nella mia regione di nascita.

Seduta sul letto le gambe incrociate formicolavano, dentro di me pensavo che quella era la peggior vacanza di sempre, non mi ero mai sentita così sola quando ero a Belgrado. Almeno lì avevo sempre avuto qualcuno. Fino ad allora.

Si è approssimato il crepuscolo, ero uscita solo per andare in bagno e mangiare in silenzio. Avevo deciso di ignorarli, anche se di solito guardavamo tutti assieme il notiziario dopo cena, ma quella sera no. Volevo restare sola. Ho abbozzato un sommesso “Buonanotte” poco dopo le 20, sono andata in camera e ho chiuso a chiave la porta, giusto nel caso, non sia mai, qualcuno avesse voluto venire a parlarmi. Nella stanza c’era una stampa, una riproduzione della Monna Lisa. La fissavo con sguardo vacuo, ondate di vuoto mi pervadevano. Mi generava un senso di inquietudine quell’immagine.

«Anima mia, apri alla nonna, ti prego.» Nonna aveva bussato alla porta

«Vai via.» Non volevo vederla in quel momento

«Ascoltami Barby» lei continuava dolcemente «ti capisco ma…» le parole le erano rimaste impigliate in gola a metà.

Nell’etere si stava diffondendo un suono gelido come l’alito della morte stessa. UUAAAAAUU. Lento. Impietoso. Assordante. Mi sono subito riscossa, seduta sul bordo del letto, gli occhi spalancati, i sensi all’erta. Sentivo freddo. Di nuovo UUAAAAAUU.

«Barby, apri, subito!» nonna batteva forte col pugno sulla porta, la voce spezzata dal panico.

Ero frastornata, ho aperto, i suoi occhi erano come quelli di un gatto, sbarrati con le pupille dilatate. Mi ha afferrata e spinta verso il corridoio in una frazione di secondo. Ancora UUAAAAAUU.

Dunque era questo il suono della paura? La sirena riecheggiava minacciosa in tutta la città, il suo fragore era così forte che temevo avrebbe fatto sbriciolare le pareti. Ha ululato e ululato ancora senza mai fermarsi. Non aveva tempo per badare a noi. Quando il rumore si attutiva, si sentiva il feroce frastuono dei caccia: uno sciame letale. Nonno mi aveva serrato il braccio in una morsa così selvaggia da farmi stringere nelle spalle per il dolore.

«Fuori! Adesso!» mi ha spinta con violenza oltre la porta

Mia zia e mia nonna dietro di noi, terrorizzate. Tutte le porte sul pianerottolo erano aperte, stavamo per prendere le scale, quando mio nonno si è fermato: il signor Libe si reggeva malfermo sulle proprie gambe, i troppi inverni alle sue spalle gli davano difficoltà nel camminare, in quei giorni il figlio era via e lui non ce l’avrebbe mai fatta da solo.

«Andate, ci vediamo giù.» aveva detto il nonno dirigendosi verso l’anziano

Nonna e zia erano già infondo alla prima rampa.

«Barby!!!» urlava la nonna cercando di sovrastare il rumore.

La casa tremava, il caos ci stritolava come un guanto di ferro. Sono rimasta piantata sul pianerottolo del 10° piano come se per me il tempo si fosse fermato: nonno trascinava il vecchietto,  le persone correvano giù facendo tre gradini alla volta, noncuranti del rischio di cadere. La bambina dei vicini aveva cercato di entrare nell’ascensore, ma la mamma l’aveva tratta a sé e la pesante porta si era richiusa sulle sua dita. Le aveva tranciato un paio di unghie. Sanguinava. 

Urla, panico, un vortice ovattato. I suoni emergevano da un liquido denso, sovrastato solo da quell’orribile UUAAAAAAUU. Mi è arrivato uno schiaffo e sono stata strattonata a forza giù. Era mia zia, in preda al delirio, mi stava urlando contro di tutto. Non capivo una sola parola. Correvo con lei e la nonna. Sentivo il beton ghiacciato sotto le piante scalze. Venivo urtata da tutte le parti, nessuno capiva più nulla. Eravamo una mandria impazzita. Davanti a noi si è materializzata la salvezza con le sembianze della porta rossa del rifugio sotterraneo.

Quando c’eravamo tutti, è stata chiusa. Il mondo era fuori, noi lì, in quel bozzolo angusto. Nessuno osava fiatare. Solo qualche bambino piangeva e tirava su col naso. La piccola che si era ferita alla mano sedeva vicino a me: la mamma la cullava dolcemente, le teneva i palmi sulle orecchie affinché non sentisse. Era rannicchiata e tremava. Si teneva il polso con la manina. Abbassando lo sguardo ho visto che aveva bagnato i pantaloni. L’ho subito distolto. Era un quadro surreale. Tutti seduti mentre la tempesta impazzava sopra le nostre teste. La sirena era lontana anni luce, poi abbiamo sentito l’esplosione. Siamo trasaliti. Le lampade nel rifugio hanno avuto un tremolio, nessuno osava guardare gli altri negli occhi. Il terrore era la presenza concreta che riempiva quello spazio. Aveva un peso, un colore, un suono, finanche un odore. Non avevo mai sentito l’odore della paura fino ad allora. Un’altra esplosione, stavolta più forte, più vicina. La casa ha tremato. Buio.

Qualcuno ha urlato, qualcuno singhiozzava. Io ero stordita. Nell’oscurità totale di quella cavità sotterranea ho cercato la mano di mia nonna, ma sentivo solo il cemento freddo. Siamo rimasti tutti immobili, con i sensi acuiti dalle tenebre. All’improvviso, dopo tutto quel rumore, era calato il silenzio. Non si sentiva un singolo suono. Innaturale. Pareva quasi che nessuno respirasse più. Siamo rimasti immobili, inchiodati ai nostri posti ad ascoltare il vuoto. Ho pensato che era giunta la fine. Non so per quanto tempo il buio e il silenzio ci hanno tenuti prigionieri, forse minuti, forse ore, potevano essere trascorsi anche giorni. La mia percezione era ormai alterata.

Quando siamo usciti sembravamo dei naufraghi, sopravvissuti a un viaggio devastante per l’anima. Una volta aperta la porta rossa, ricordo solo il colore del cielo sopra di me ed il silenzio che regnava nella mia testa.

E quel silenzio era molto più spaventoso di tutto ciò che avevo vissuto in precedenza.

Allora ho capito, nulla sarebbe mai più stato uguale.

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